Docenti in pensione sempre più tardi, e sempre più vecchi: in Europa anche a 55 anni

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A causa di nuove norme e disincentivi, i pensionamenti nella scuola si sono dimezzati. Ipensionati con meno di mille euro al mese sono ora il 41%.

A causa di nuove norme e disincentivi, i pensionamenti nella scuola si sono dimezzati. Ipensionati con meno di mille euro al mese sono ora il 41%.

Uno studio effettuato dall'ANIEF evidenzia come a causa dello spostamento dell'età ensionabile, ad esempio per le donne che rappresentano l'81% dei docenti anche di sei anni, si mantenga il corpo docente più vecchio al mondo. In altri paesi come Polonia, Cipro, Belgio, Danimarca, Irlanda, Grecia, Spagna e Lussemburgo si può accedere tra i 55 e i 60 anni ad una pensione piena sulla base degli anni di servizio svolti.

Le proiezioni sui requisiti sull’accesso al pensionamento anticipato evidenziano come tra 15 anni, nel 2030, si potrà accedere alla pensione di vecchiaia solo oltre i 68 anni; mentre per accedere all’assegno di quiescenza anticipato bisognerà aver versato attorno ai 44 anni di contributi. E già oggi i pochi fortunati che possono lasciare prima, si vedono quasi sempre decurtare l’assegno pensionistico di cifre non indifferenti, in media del 25%. E siccome “per più di quattro pensionati su dieci l'assegno non arriva neppure a mille euro al mese”, oltre la metà (il 52%) sono donne, è evidente che in questo modo si sta andando sempre più verso un Paese a rischio povertà in età avanzata. Non dimentichiamo, infatti, che “il potere d’acquisto delle pensioni è in caduta libera: in 15 anni è diminuito del 33%”.

La “stretta” sull’accesso alla pensione non ha di certo risparmiato i lavoratori statali, soprattutto le donne: già quest’anno le norme per accedere all'assegno pensionistico hanno portato le lavoratrici del pubblico a lasciare il servizio a 63 anni e 9 mesi. Nel 2018 per entrambi i sessi serviranno quasi 67 anni: per comprendere l’enormità del numero, basta dire che 20 fa, prima della riforma Amato, le insegnanti potevano lasciare anche a 55 anni.

Le prospettive della riforma in atto sono ancora più nere: nel 2050 si potrà lasciare il lavoro nel pubblico solamente a 69,9 anni. Per le pensioni di anzianità non andrà meglio: se nel 2016 alle donne verranno chiesti 41 e dieci mesi di contributi versati, nel 2050 gli anni diventeranno addirittura 45 (46 per gli uomini). Nella scuola, dove l'81% dei docenti italiani sono donne, gli effetti della riforma Fornero già si fanno sentire particolarmente: lo scorso anno sono andati in pensione circa 11mila docenti e 4mila Ata. Mentre 12 mesi prima erano stati complessivamente 28mila. E nel 2007 oltre 35mila. Sono dati avvilenti, soprattutto se si pensa che abbiamo il corpo docente tra i più vecchi dell’area Ocse: in base agli ultimi dati ufficiali, l’età media delle immissioni in ruolo è alle soglie dei 40 anni di età.

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L’ultimo rapporto 'Education at a glance' ci ha detto che nel 2011 in Italia aveva più di 50 anni il 47,6% dei docenti della primaria, il 61% di quelli delle medie inferiori e il 62,5% di quelli delle superiori. Mentre solo lo 0,27 per cento dei nostri insegnanti ha meno di 30 anni. Contro la presenza di insegnanti under 30 che in Germania si colloca al 3,6%, in
Austria e Islanda al 6%, in Spagna al 6,8%. Tutti Paesi, questi ultimi, che continuano a tenere gli aspiranti docenti lontani dalla scuola e costringendo a lasciare in cattedra chi ci sta anche da quarant’anni.

Ma è altrettanto grave che laddove questi lavoratori riescano ancora a vedersi concessa la domanda di pensione anticipata, debbano comunque pagare un conto salatissimo: la sensibile decurtazione dell’’assegno pensionistico. Come riferisce Il Corriere della Sera, basta guardare all’‘opzione donna’ di questi giorni. “Si tratta della possibilità, prevista dalla legge 243 del 2004, per le lavoratrici con almeno 35 anni di contributi e 57 anni d’età di andare in pensione, se lo vogliono, ma con l’assegno interamente calcolato col contributivo, che di regola comporta un taglio del 15-20%, rispetto al calcolo retributivo”. Ma la perdita dell’assegno pensionistico, sempre nel caso della ‘opzione donna’, può arrivare anche al 39%.

La novità peggiorativa è legata al fatto, riporta la stampa specializzata, che “la riforma ‘Monti-Fornero’ ha cancellato le vecchie pensioni di anzianità, con le relative “quote” intese come somma di età anagrafica e contribuzione, e ha introdotto la pensione anticipata. Si tratta di una prestazione che è concessa a chi ha un’anzianità contributiva di almeno 42 anni e 1 mese se uomo o 41 anni e 1 mese se donna. Non è prevista un’età anagrafica minima, ma per chi chiede la pensione anticipata prima dei 62 anni è stabilita una penalizzazione pari all’1% per ogni anno di anticipo entro un massimo di due anni e al 2% per ogni anno ulteriore rispetto ai primi 2. I requisiti contributivi sono aumentati a 42 anni e 5 mesi se uomo e 41 anni e 5 mesi de donna dal 1° gennaio 2013 e di un altro mese dal 1° gennaio 2014”. E chi richiede la pensione anticipata a 59 anni si vedrà tagliato l’assegno del 4 per cento.

E il quadro potrebbe addirittura peggiorare: non a caso, un anno e mezzo fa il nostro sindacato denunciava che “il nuovo ministro del Lavoro Enrico Giovannini, che continua a lavorare ad un piano in base al quale, oltre alla necessità di migliorare la flessibilità in entrata, attraverso modifiche ai contratti a termine ed all'apprendistato, prevede una serie di punti da revisionare. Tra cui proprio le pensioni. Si starebbe già pensando, valutando i costi associati, ad una fascia di flessibilità per anticipare l'uscita dal lavoro di 3-4 anni in cambio di penalizzazioni da definire”. Sempre in quell’occasione, l’Anief arrivò anticipò che si sarebbe arrivati “a percepire un assegno mensile anche del 40% dell’ultimo stipendio”.

“Già allora eravamo consci – ricorda Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir – non solo della leggerezza messa in atta dall’autore dell’articolo 24 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 214 del 22 dicembre 2011. Una superficialità, quella del legislatore, confluita poi nel paradosso dalla mancata volontà di cancellarla, culminata questa estate con la manfrina parlamentare di inizio agosto, quando abbiamo assistito alla clamorosa retromarcia del Governo sulle quattro modifiche presentate al decreto sulla pubblica amministrazione. Collaborando, tra l’altro, ad allargare sempre più la forbice rispetto agli altri Paesi”

In Francia, ad esempio, l’età minima di pensionamento, pur essendo stata di recente innalzata, è comunque stata fissata a 62 anni. Mentre ci sono altri paesi – come Polonia e Cipro – dove l’età minima per lasciare il lavoro in cambio di una pensione piena al completamento del numero di anni di servizio svolti, senza decurtazione, è fissata a 55 anni. E diversi altri, tra cui Belgio, Danimarca, Irlanda, Grecia, Spagna, Lussemburgo (pag. 93 dell’ultimo Rapporto Eurydice della Commissione europea ‘Cifre chiave sugli insegnanti e i capi di istituto in Europa’), dove, allo stesso modo, è possibile ottenere “una pensione piena al completamento del numero di anni di servizio richiesti.

Mentre in Italia l’unico criterio che è prevalso è stato ancora una volta quello della salvaguardia dei conti pubblici. Senza pensare che, ancora una volta, è stato realizzato sacrificando persone in carne e ossa. Per sostenere il risparmio a tutti i costi, con la riforma Fornero si è andati a tirare fuori dal “cilindro” la speranza di vita: sostenendo, in pratica, che poiché si vive più a lungo (le donne oltre gli 85 anni) occorre andare in pensione più tardi. Ma paradossalmente, qualora le aspettative crescenti previste dall’allora Governo Monti non dovessero realizzarsi, si è anche provveduto ad introdurre una salvaguardia, sempre a tutela dei conti pubblici e non certo dei lavoratori pensionandi: dal 2022, infatti, la Legge 224/2011 prevede che comunque l’età di pensionamento non potrà essere inferiore ai 67 anni per tutti.

Eppure è stato scientificamente provato che chi opera nella scuola svolge uno dei lavori più stressanti e a rischio burnout: è il mestiere che impegna di più in relazioni umane e nello sviluppo della persona. Ma paradossalmente è anche quello che è stato più sacrificato nell’altare dei tagli nella pubblica amministrazione. In Italia, la correlazione tra stress da insegnamento e patologie è stata confermata dallo studio decennale ‘Getsemani’ Burnout e patologia psichiatrica negli insegnanti, da cui è emerso che la categoria degli insegnanti è quella che di più conduce verso patologie psichiatriche e inabilità al lavoro: dallo studio è emerso che ad essere stressati per il lavoro logorante sono, a vario titolo, il 73 per cento dei docenti. Eppure il nuovo Testo unico dei lavoratori, l’articolo 28 del D. Lgs. 81/08, avrebbe dovuto imporre dal 1° gennaio 2011 ai datori di lavoro di adoperarsi, assieme agli organi di competenza, per predisporre un piano di studio e d’azione per contrastare il crescente problema del burnout.

Nella scuola, secondo Vittorio Lodolo D'Oria, medico e autore di svariati studi sul burnout, secondo cui “i dati sull’aumento di patologie psicologiche o psichiatriche preoccupano, soprattutto tra le donne in menopausa: ma invece di tutelarle, con la riforma Fornero le abbiamo mandate in pensione dieci anni dopo. Mentre in altri Paesi c’è coscienza del problema, da noi il Miur continua a non far nulla”.

“L’Anief ha calcolato – commenta Pacifico – che negli ultimi 10 anni le immissioni in ruolo dei docenti sono state di gran lunga inferiori ai pensionamenti: l’Anief ha calcolato che in Italia tra gli anni scolastici 2001/2002 e il 2013/2014 sono andati in pensione 295.200 docenti ed educatori. Se a questo aggiungiamo che il 62% degli stessi insegnanti è over 50 e che, grazie alla riforma Fornero, entro pochi anni ci ritroveremo con oltre 100mila insegnanti ultra 60enni, bisogna porre rimedio introducendo per tutti gli insegnanti quella flessibilità invocata e purtroppo incredibilmente negata per i Quota 96: i 4mila docenti che a fine 2011 sapevano di dover lasciare il servizio nell’estate successiva, a differenza del legislatore a cui nessuno ha evidentemente detto che nella scuola è possibile accedere all’assegno di quiescenza solo con la ‘finestra’ del 1° settembre di ogni anno”.

“Quello che fa più rabbia – incalza il sindacalista Anief-Confedir riferendosi all’Età pensionabile nell’UE – è che le rigidità imposte dalla riforma Fornero non trovano spazio in diversi altri Paesi a noi vicini. Se si va a confrontare l’età di pensionamento in Europa, emerge chiaramente che nei prossimi anni, prendendo come riferimento il 2020, l’età pensionabile dei lavoratori italiani figura già tra le più alte. E nei decenni a seguire, il gap diventerà più evidente: saremo, infatti, tra i pochi Paesi del vecchio Continente a chiedere ai propri cittadini di lasciare il servizio lavorativo solo dopo aver raggiunto i 70 anni di età anagrafica. Con altri Paesi, invece, dove potranno lasciare il servizio anche 5 anni prima”.

“La verità – conclude Pacifico – è che anziché incentivare il trattenimento in servizio, come indicherebbe l’Ocse, si agisce solo in un verso: quello di disincentivare chi è sfinito. E vuole far valere il diritto di andare in pensione senza decurtazioni rispetto ai contributi versati per decine di anni. Come avviene in diversi altri Paesi d’Europa”.
 

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