A colloquio con la dirigente scolastica più giovane d’Italia

WhatsApp
Telegram

A colloquio con Anna Maria De Luca. Già maestra più giovane d’Italia, dal 2012 è la dirigente più giovane del nostro Paese. Ha partecipato alla stesura della Riforma della scuola, contesta l’eccessiva femminilizzazione dell’istruzione e apprezza il lavoro dei docenti: “Alcuni sono eroi – spiega – altri dovrebbero cambiare mestiere”.

A colloquio con Anna Maria De Luca. Già maestra più giovane d’Italia, dal 2012 è la dirigente più giovane del nostro Paese. Ha partecipato alla stesura della Riforma della scuola, contesta l’eccessiva femminilizzazione dell’istruzione e apprezza il lavoro dei docenti: “Alcuni sono eroi – spiega – altri dovrebbero cambiare mestiere”.

Al momento dell’assunzione, avvenuta il 1 settembre 2012, è stata la dirigente scolastica più giovane d’Italia, dopo che nel 1999 era stata la maestra italiana più giovane con i suoi 21 anni neppure compiuti e quando il diploma magistrale era (ancora per poco) un diploma abilitante.

Oggi Anna Maria De Luca è di ruolo presso l’istituto comprensivo “La Giustiniana”, situato nella parte nord di Roma, ed è la preside, anzi la dirigente scolastica che tutti vorrebbero.

Vicina ai docenti e agli alunni, la passione per il giornalismo, per il cinema e per l’attualità che ha portato tra i banchi fin dalla scuola primaria. E per gli eroi della nostra quotidianità che spesso i giovani neppure conoscono, dalle madri di Piazza di Maggio di Buenon Aires a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino la cui foto campeggia dietro la sua scrivania.

La dirigente Anna Maria De Luca è calabrese, nata a Paola (CS) il 18 dicembre 1978, ha studiato in provincia di Pavia fino alle medie, poi è tornata in Calabria per il liceo, infine a Roma, dove si è laureata due volte. La prima frequentando la facoltà di Scienze della Comunicazione, durante la quale ebbe pure l’assunzione a tempo indeterminato come maestra. La seconda laurea in Teorie e Tecniche psicologiche, usata “non certo per iscrivermi all’albo degli psicologi” ma “per avere maggiori strumenti per affrontare i problemi, i conflitti e le sfide quotidiane nella mia scuola”. Ha un passato e un presente giornalistico e un passato e un presente “ministeriale”.

Già, perché la giovane dirigente calabro romana (con parte delle radici affondate nell’oceano dove il regime argentino alla fine degli anni Settanta gettò i corpi di migliaia di desaparesidos: fu il caso di una propria congiunta) ha contribuito all’elaborazione della riforma Renzi-Giannini, partecipando al Cantiere 1, il gruppo di lavoro che ha elaborato la Buona Scuola, con delle proposte che sono diventate norme nella Legge 107 e con altre che sono state discusse e apprezzate. Ha un blog sull’Huffington Post.

Ha lavorato prima in giornali locali (Gazzetta del Sud, Provincia cosentina, Quotidiano della Calabria, Il Quotidiano della Sera) e poi, come freelance, per testate nazionali (La Repubblica, L’Unità, Il Sole 24 Ore inserto Sud) portando avanti inchieste sulle ecomafie ed in particolare sulle navi dei veleni.

Tra le inchieste più importanti sul tema delle violazioni dei diritti umani in Italia, la triste vicenda della clinica degli orrori di Serra d’Aiello (Festival internazionale di giornalismo di Pordenone). Premio Calabria 2004 di giornalismo e letteratura, collabora dal 2006 con il gruppo Espresso, dal 2010 con la rivista tedesca Spotlight Verlag e con il quindicinale Lavoro Facile. Ha seguito per Repubblica.it le udienze del processo Esma (raccolte nel libro "Vite senza corpi", ed. Gorée). Dal 2008 al 2012, come detto, ha lavorato nel Miur per il "Gruppo di lavoro interministeriale per lo sviluppo della cultura scientifica e tecnologica" e per il "Comitato nazionale per l’apprendimento pratico della musica” presieduti da Luigi Berlinguer, poi per i due Dipartimenti, ed in particolare per il lancio degli ITS (i nuovi istituti tecnici superiori).

Fa parte del gruppo di lavoro ministeriale per l’Educazione ai media e scrive sulla Rassegna dell’Istruzione. Lo scorso anno ha lavorato in Avviso Pubblico, la rete di amministratori contro le mafie, occupandosi della formazione diretta alle scuole.

Collabora attivamente con Libera e fa parte di 24marzo.it. Ha all’attivo anche la pubblicazione di alcuni libri: "Vite senza corpi. Verità e giustizia per i desaparecidos argentini", ediz Gorèe, 2009; "Quel Giorno. Storie di vittime delle mafie nel racconto dei loro familiari", ediz.Gruppo Abele, marzo 2013; "Non per il naso" (marketing olfattivo), novembre 2014; "Nel cuore di chi resta", edizioni Eraclea, 2015¸ dove racconta agli studenti gli eroi invisibili del nostro tempo attraverso interviste ai loro familiari.

Professoressa Anna Maria De Luca, mi spieghi questo salto dalle vittime di mafia, dai desaparecidos argentini, dall’amore per il giornalismo e la comunicazione al… concorso per dirigente scolastico

“Non è un salto, perché quando si parla di education si parla chiaramente di interpretare tutti gli stimoli che arrivano dall’esterno. Il giornalismo è un modo e anche un osservatorio per leggere la realtà, per entrare in contatto con dei mondi con i quali forse non entreresti in contatto. Pensiamo alle vittime di mafia e a quelle delle dittature, come quella argentina. E sono eroi della quotidianità. Una volta esistevano eroi presentati dalla scuola come personaggi illustri. I ragazzi hanno bisogno di figure e di esempi provenienti dalla quotidianità. Dunque il giornalismo mi permette di portare nella scuola strumenti e testimonianze che a scuola mancano”.

Come ha avuto inizio l’avventura scolastica?

“Nel 2000, a 21 anni non compiuti, sono entrata nella scuola a Roma come insegnante dopo aver vinto il concorso del 1999 per le elementari. Frequentavo Scienze della comunicazione all’università. A quel punto potevo dire lascio tutto, tanto ho un lavoro a tempo indeterminato, invece ho continuato”.

Perché?

“Volevo andare oltre e ho fatto tutta l’università pur andando a scuola, quindi la mia vita era divisa tra i due impegni. Sono stati anni molto complicati, solo per spostarsi da un luogo all’altro di Roma era un’impresa. Devo dire che mi son goduta poco gli anni dell’Università. Però oggi mi rendo conto che la chiave non è aspettare di finire l’università per andare a lavorare ma iniziare a muoversi prima”.

Non è però facile, di questi tempi, trovar lavoro.

“Secondo me si riesce Molti hanno rinunciato a provare. Mi spiace solo di non aver potuto fare l’Erasmus, a causa degli impegni scolastici, ma è un’esperienza che consiglio a tutti”.

Perché importante l’Erasmus?

“Perché i ragazzi sono costretti a confrontarsi con gli altri e con sé stessi in un Paese lontano dove si parla un’altra lingua e dove non possono contare sulla presenza dei familiari. Consente poi di sviluppare le lingue che oggi contano più di una laurea”.

Come ha visto la scuola quando è arrivata a scuola per la prima volta?

“Avevo uno sguardo diverso rispetto ai miei colleghi che avevano l’età della mia mamma. Ho cominciato a portare ai ragazzi i giornali, volevo che entrassero nella loro quotidianità. Poteva sembrare una cosa sciocca, ma in realtà si aprivano dei dibattiti e dei campi di conoscenze nuove che nelle scuole primarie in genere non entrano. Cercavo di allargare gli orizzonti rispetto al mondo dei bambini. Questo è il motivo per cui i ragazzi si distaccano via via dalla scuola. Invece occorre trovare un modo per collegare la scuola alla realtà”

Era una scelta apprezzata?

“Era apprezzata dai bimbi, dai docenti un po’ meno. Per alcuni andare nell’aula video era tempo perso invece noi non la usavamo così per perdere tempo, c’è modo e modo di usare gli strumenti, ai colleghi risultava un po’ difficle capire cosa stessimo facendo. Le insegnanti elementari erano insegnanti che s’erano diplomate 50 anni fa, ora gli insegnanti sono giovani e preparati”.

C’è dunque stato un ricambio generazionale importante secondo lei?

“Senz’altro”.

Perché la seconda laurea?

“Volevo avere più strumenti perché i bambini volevano avere una psicologa, una mamma, un’amica, intanto era arrivata la crisi economica, l’immigrazione. Quindi di nuovo all’università a Psicologia per poter stare meglio con i bambini, per dare di più a loro. Non volevo fare la psicologa, infatti non ho mai fatto l’esame di Stato, volevo solo avere più strumenti da utilizzare con loro”.

E’ poi servita, questa seconda laurea?

“Non tantissimo. Mi è servita per migliorare i rapporti con i colleghi specie per quanto riguarda la psicologia delle organizzazioni. A scuola ci sono conflitti, è un mondo molto femminile, c’è uno squilibrio di genere, almeno alla primaria e secondaria di primo grado. I bambini vedono quasi solo mamme, sorelle, maestre. Difficilmente vedono padri. E’ uno squilibrio che si riflette in tutte le scuole”.

Il problema della femminilizzazione dell’istruzione è studiato nei convegni. Ma fa riflettere se ricordato da una donna insegnante oltre che dirigente.

“E’ difficilissimo lavorare con sole donne. Ci sono insegnanti che fanno questo lavoro per ripiego altre per scelta. Alcuni danno l’anima, si portano il lavoro anche a casa e per quattro lire pensano ai bambini anche di notte. Ad altri non riesci a far fare un’ora in piu neppure a pagarle”.

Poi il concorso, superato, a dirigente scolastico. Ma subito dopo la chiamata al Ministero per la redazione della Buona scuola…

“Poiché ero la più giovane dirigente mi hanno chiamata nel Cantiere 1, costituito di esperti e tecnici di scuola, per mettere in piedi questa riforma”.

Quali idee ha portato e che poi sono diventate norme della legge 107?

“Nel Cantiere 1 sono andate in porto alcune idee, altre no. Tra le mie idee, l’obbligo di formazione dei docenti è andata in porto e sono contenta perché era assurdo che chi forma non si formi. L’altra idea a cui tenevo era la possibilità per i docenti di avere sconti nei musei, per l’acquisto di libri e tutto quello che poi ha preso la forma della carta di 500 euro”

Viste le tante proteste, si sente responsabile?

“Eravamo tutti molto d’accordo su questi punti. E’ necessario far diventare la docenza una professione e non un mestiere. Mentre in tutte le professioni c’è un albo e l’obbligo di formarsi, a scuola invece no. Al di là dell’albo, che mi sembra un’idea fascista, è necessario che il docente sia rivalutato socialmente. Fondamentale in questo momento è mettere in piedi un giusto sistema di valutazione”.

Come si fa a valutare i docenti?

“L’idea è piu ampia. Immagini una piramide: gli alunni sono valutati dal docente, i docenti dal comitato di valutazione, i dirigenti dal Miur, le stesse scuole vengono valutate. E’ una valutazione riflessiva, che serve come strumento di miglioramento. La scuola, essendo parte della società, deve rendere conto del proprio lavoro alla società stessa e alle istituzioni oltre che alle famiglie. Per rendere conto occorre rendersi conto e dunque serve uno strumento di misura. Quando parlo di autovalutazione intendo questo: il primo segmento che porta poi a un bilancio sociale e non a una pagella. Penso a uno strumento di lavoro e non a uno strumento che valuta chi è più antipatico o simpatico e bravo o vicino al preside. Infatti, il Rav, il Rapporto di autovalutazione, è uno strumento di lavoro e anche di trasparenza. Se io iscrivo un figlio in una scuola voglio sapere chi sono i professori che vi lavorano, la famiglia deve sapere chi sono i docenti con i quali ha a che fare il proprio figlio. Rendere conto è necessario”.

Ma cosa fare quando un insegnante che lavora in una scuola risulta non essere all’altezza del compito?

“E’ normale che nel rapporto tra alunni e professori ci sia sempre qualche docente che non vada a genio a qualche studente. Ma se la quasi totalità dei ragazzi si lamenta allora il problema c’è. Se si tratta di una patologia ci si muove con Asl e l’Usr per valutare se è una persona che possa stare a scuola. C’è la possibilità di passare ad altri ruoli. Altra cosa se non è capace di insegnare”.

Già, e che cosa si fa a questo punto?

“Purtroppo spostare un docente non è facile. Per un dirigente, potersi scegliere i docenti sarebbe una cosa ottima ma attualmente in Italia non c’è questa possibilità. Allora invece di fargli fare 4 ore in una classe, gli fai fare un’ora di potenziamento in tutte le classi. E’ insomma difficilissimo spostare un insegnante, ci sono dei muri sindacali altissimi. C’è il diritto alla continuità e tantissime altre cose. A me è successo di trovarmi con un’insegnante che creava gravi problemi ma nessuno è riuscito mai a spostarla. Dovremmo avere la possibilità di isolare persone che hanno dimostrato di non poter stare in classe. L’intoccabilità dei docenti – ovviamente quando l’incapacità è provata – è anacronistica e fa danni ai ragazzi”.

Ci doveva pensare la Buona scuola

“La Buona scuola era mirata a risolvere soprattutto il problema del precariato e ad eliminarlo. Ma la riforma funziona se viene interpretata bene e non a modo proprio. Per questo è importante valutare i dirigenti. Ora stanno nascendo le figure dei valutatori che si occuperanno appunto della valutazione. In ogni caso, i risultati dell’apprendimento non bastano: per esempio, un conto è prendere una classe con un livello di partenza basso, un altro conto è prendere una classe con un livello buono già in partenza. Cambiano i contesti: un conto è un posto di mafia, un altro conto un quartiere bene. Nord è Sud sono mondo separati. I fondi arrivano al Sud, ma i risultati migliori sono al Nord”.

Perché?

“E’ una questione di senso del dovere. Si prenda ad esempio la questione dei giorni di scuola. Al Sud spesso sono meno che al Nord. Per esempio in Calabria, ma anche in altre regioni, a maggio gli studenti si ritirano per il caldo. Facendo i conti, tra festività, occupazione e caldo, si arriva anche a due mesi in meno rispetto ai ragazzi della Lombardia. E’ chiaro che questo lassismo determina delle differenze. Prenda me. Io ho frequentato scuola primaria e media a Pavia invece il liceo l’ho frequentato al Sud: un abisso di differenza”

Ma perché questo divario, che tutti conoscono anche se pochi interessati ammettono?

“Al Sud, per la carenza di lavoro, la scuola è stata vista da molti docenti come un ammortizzatore sociale, per avere un posto, per farsi la famiglia ed è andata avanti così per molti anni. Al Nord i posti di lavoro c’erano e quindi non tutti sono andati all’università, scegliendo invece di lavorare nei vari settori e chi insegnava lo ha fatto per scelta. Al Sud, a causa della cultura del posto fisso la scuola è stata vista come una sistemazione sicura piuttosto che una sfida quotidiana. Non si tratta di qualità degli insegnanti, attenzione. Ci sono insegnanti bravi al Sud come al Nord, ma le motivazioni sono diverse. Al Nord uno che vuole guadagnare va in fabbrica. Con l’ex ministro della Pubblica Istruzione Riccardo Misasi entrarono a scuola ‘milioni’ di persone e ci fu una assoluta mancanza di selezione. Ma ora non è piu così. Visto che è complicato entrare a scuola, chi studia Scienze della formazione lo fa perché desidera davvero questo lavoro, è diventata una scelta più consapevole”.

Ma al Miur sanno che i ragazzi al Sud fanno spesso tanti giorni di assenza durante l’anno scolastico?

“E’ una sorta di consuetudine. Se i genitori portano il certificato medico di chi è la responsabilità?”.

Mi dica quali sono le sue proposte portate al Cantiere 1 e che non sono state inserite nella legge sulla Buona scuola

“Ad esempio quella sull’equiparazione dei dirigenti scolastici ai dirigenti della pubblica Amministrazione a livello di stipendio”.

Cioè? ( Attenta che tra un po’ le chiederò di rivelarci finalmente quanto guadagnano i presidi perché, cascasse il mondo, non si riesce mai a saperlo…)

“Abbiamo grandi responsabilità che non ci vengono riconosciute economicamente. Consideri che noi dirigenti scolastici abbiamo la rappresentanza legale dell’istituto. Quindi se uno denuncia la scuola io mi devo pagare un legale, che però per legge non può venire in tribunale: noi siamo lo Stato e quindi possiamo avere solo l’Avvocatura dello Stato che di fatto, avendo tante cause, molto spesso non viene. Dunque mi devo preparare per l’udienza e se non sono proprio un giurista non ho tante chances di farcela. Ancora: come scuola noi siamo una stazione appaltante e il dirigente scolastico è Rup, cioè Responsabile unico del procedimento negli appalti: nel primo anno a Roma, caso unico, il sindaco Alemanno indisse una gara d’appalto per la mensa autogestita e così ogni scuola s’è dovuta fare la gara da sola. Eravamo 80 scuole, è stato un incubo, ho dovuto spendere 5000 euro per pubblicare il bando sulla Gazzetta europea e poi tante ditte partecipanti sono finite nell’inchiesta Mafia Capitale. Io per fortuna sono riuscita a dare l’appalto a una ditta minore, ma è una follia, non è il nostro lavoro fare una gara d’appalto “sopra la soglia comunitaria”. Inoltre, abbiamo la titolarità della contrattazione sindacale, là dove aumentano i conflitti tra i lavoratori della scuola, tutte cose che i dirigenti ministeriali non hanno, ma loro guadagnano molto più di noi”.

Mi dica allora quanto guadagnano i presidi, perché sulla questione aleggiano dei misteri e si moltiplicano le interpretazioni fantasione, si parla di percentuali sui progetti e non solo.

“Dipende dalla fascia di rischio della scuola. Se sta vicino a un campo Rom, a un quartiere difficile, dipende dalla città, si rientra in prima seconda terza e quarta fascia, a seconda della localizzazione geografica della scuola e del rischio. Dipende dal numero degli alunni, dagli anni di servizio”.

C’è una parte fissa e una variabile

“Esatto. La parte variabile è legata anche alla percentuale sui progetti, e questa è importante specie in certe regioni del Sud dove arrivano tanti fondi per i progetti. Nessun dirigente guadagna la stessa cifra di un altro, ecco perché nessuno può rispondere. Alcuni possono guadagnare più di mille euro in più rispetto ai docenti, altri solo cinquecento. E’ per questo che servirebbe un’equiparazione tra dirigenti e amministrativi ministeriali, ma questa cosa pare non debba essere concessa”.

Quant’è difficile dirigere un istituto?

“Le cito un fatto successo nella mia scuola, La Giustiniana. Uno dei plessi di questa scuola era fatiscente, c’erano infiltrazioni di acqua, di amianto. Un giorno, a novembre 2012, dopo la chiusura per la commemorazione dei Defunti, quando la bidella andò ad aprire c’era acqua da tutte le parti, era assolutamente inagibile, una trave stava per crollare, i vigili del fuoco ci hanno fatto evacuare e due giorni dopo siamo riusciti a rientrare ma senza la corrente elettrica. Le mamme mettevano le torce negli zaini dei bambini e stiamo parlando di una zona come la Cassia, una zona ricca. E tutto questo mentre c’era una scuola nuova, assegnata a noi da anni ma mai consegnata. Io ero appena arrivata e decisi di prenderla. Alla fine ci siamo riusciti, dopo mesi e mesi di battaglie, anche con l’Atac che non ci voleva dare la fermata perché – pensi che geni – questa scuola era stata costruita su una strada privata. Abbiamo traslocato a Pasqua ma ad impacchettare tutto siamo rimasti in tre gatti: di tutti i genitori che parlavano davanti alle telecamere solo tre quattro ci hanno aiutato concretamente. In più c’era anche una seconda scuola pubblica, nuova ma chiusa. Era una materna e io rinunciai alla cucina per darla a loro, perché potessero aprire ma invece non è successo: è ancora chiusa e cosi centinaia di genitori sono ancora costretti a pagare le private privata. Ogni giorno devi trovare soluzioni creative, le leggi hanno dei buchi. I dirigenti sono soli nel risolvere i problemi quotidiani”.

Ha praticamente abbandonato la sua preparazione didattica per gestire problemi d’ordine decisamente diverso.

“E’ così. Gli insegnanti si occupano della didattica però non hanno la vaga idea di cosa significhi la scuola come organizzazione, di cosa siano le gare d’appalto. Le persone non si rendono conto e al contempo noi non ci occupiamo di didattica come i presidi di una volta. Servirebbero due persone, una come dirigente, un’altra per le gare d’appalto. Ci fu una volta l’idea, tanto avversata, che il dirigente scolastico dovesse venire dalla ex Scuola superiore della pubblica amministrazione ma non è tanto sbagliato, per quanto riguarda la metà del lavoro”.

Invece occorre per legge che si arrivi dall’insegnamento.

“E’ giusto ma poi ti chiedono altro. Mi sono occupata di tutto tranne che di didattica, mi piacerebbe stare vicino ai docenti ma non ce la fai. E tutto questo con uno stipendio che è più basso. Peraltro, se lei parlasse con i presidi di una volta. Sono esasperati perché non fanno più il lavoro di prima: sono nati presidi e si ritrovano ds. Era un altro lavoro però nell’immaginario collettivo il preside fa ancora il preside. Una soluzione ci sarebbe, io ce l’ho chiara in mente”.

Quale è la sua soluzione?

“Penso alle scuole di Rimini: dirigenti, docenti e studenti vivono meglio di noi e sa perché?

Lo dica lei

“Perché il Comune ha creato una società in house, Anthea, che ha inventato un programma sperimentale, Rimini Scuola Sostenibile, che è in un certo sento il “software” della parte lavori pubblici. Voglio dire che oltre a gestire 70 scuole in modo virtuoso risparmiando sui consumi, hanno messo in piedi un programma di attività partecipata che mette i bambini al centro, facendoli diventare responsabili: usano lo spazio fisico per educare, chiedono ai bambini di disegnare la loro scuola e gliela fanno, su misura, a seconda delle loro necessità, con soluzioni ecologiche e innovative. Impensabile a Roma dove non c’è la tempra morale per fare quello che in Emilia è già realtà da anni. Qui se parli di in house pensi a furto di denaro pubblico e corruzione, a Rimini pensi alle scuole che funzionano. E ritorniamo a quel che dicevamo all’inizio, alla responsabilità, termine che don Luigi Ciotti (di Libera, ndr) usa ormai come bandiera per il futuro. Visto da Roma sembra fantascienza, il lavoro di Anthea invece è realtà, per quei fortunati che ci abitano”.

C’è ancora il rispetto nutrito verso la figura del preside di una volta?

“C’è poco rispetto da parte dei genitori verso i dirigenti scolatici e anche verso i docenti. Io sono giovane e magari la questione anagrafica non aiuta. Un settantenne ha di proprio un’autorità che io invece devo dimostrare ogni volta”.

A questo proposito, ci sarà pure un aneddoto spiacevole nei suoi ricordi peraltro recenti…

“Durante gli scrutini, faceva molto caldo e l’unica acqua che avevamo era quella del distributore automatico. Non c’erano bar vicino alla scuola e noi avevamo ore e ore di riunioni. Una mamma che aveva dimenticato di comprare al supermercato le bibite per il compleanno della figlia pensò bene di svuotare il distributore. Io ho cercato di impedirle di ‘saccheggiare’ le uniche bottigliette rimaste”.

E com’è finita?

“E’ finita che mi ha spinta contro il muro, così, davanti alla bambina. In una situazione del genere che fai? L’educazione non dipende dai soldi. Per non parlare di quelli che non pagano la mensa del figlio ma ti parcheggiano il Suv davanti all’uscita dei disabili”.

Dopo l’ennesimo alunno morto durante una recente gita d’istruzione, lei ha pubblicato sul suo blog un post che ha ricevuto migliaia di condivisioni. Invita a non farle, le gite. Perché?

“L’iscrizione di un alunno a scuola fa nascere un contratto. E per contratto occorre che la scuola garantisca la sicurezza. Se non ci sono le condizioni per garantire la sicurezza occorre evitare le gite. Un insegnante non ce la fa a controllare i ragazzi per 24 ore al giorno. I ragazzi, oggi, si azzardano a fare cose che prima non si azzardavano a fare. E’ rischiosissimo. E tutto questo senza considerare i problemi legati alle gare d’appalto con ditte che poi fanno il subappalto, per pullman musei, alberghi: se io affido un appalto a te e poi tu lo passi a un altro, la responsabilità è comunque la mia. E’ difficile controllare tanti viaggi che si svolgono peraltro nello stesso periodo. E poi, ammettiamolo, una volta le gite erano l’unico modo per viaggiare, ora ci sono i low cost ed i ragazzi se ne vanno tranquillamente in Inghilterra con gli amici”.

Ma perché, nonostante questo livello di rischio, i docenti continuano a fare le gite?

“Intanto è difficile trovare un docente disposto ad andare in gita. Alcuni lo fanno perché sono affezionati ai ragazzi e vogliono vivere con loro una esperienza meno formale, altri si impietosiscono visto che i colleghi dicono no e alla fine cedono. Però guardi che di insegnanti che muoiono dal desiderio di fare le gite io non ne vedo, forse alle superiori. Negli istituti comprensivi gli insegnanti tornano distrutti anche se si esce in città. Una volta proposi una gita in nave con genitori, docenti e ragazzi sperando che in una convivenza forzata avrebbero imparato a conoscersi, ma l’idea ovviamente non andò in porto. Nelle occasioni informali si possono rompere quei muri che si creano tra insegnanti e genitori. Ma non se ne fece nulla”.

Dia un consiglio ai nuovi dirigenti.

“Io ho fatto un master in dirigenza scolastica a Bergamo prima di fare il concorso. E sicuramente ho appreso tante cose teoriche ma la realtà è poi un’altra. Sul campo di battaglia ogni giorno ci si confronta con altre questioni, ma ciò che tutti dobbiamo fare è portare la scuola verso l’Europa. Il consiglio è quello di non farsi travolgere dall’emergenza quotidiana ma di cercare di avere una vision europea chiara. Noi dirigenti dovremmo essere coloro che aiutano a sciogliere la resistenza al cambiamento: dobbiamo far capire a chi vive nella scuola che ciò che arriva dal Miur nasce in Europa, e ancora prima, nasce nelle istanze sociologiche che si traducono poi in normative. Invece spesso tutto ciò che è nuovo viene visto come negativo da chi vive nelle aule. La scuola non è ferma, siamo in cammino, e quindi il consiglio è di non rinunciare mai alla vision, neanche quando sei stritolato da problemi di bassa levatura anche se quel giorno ti è crollato un muro o un genitore ti ha minacciato”.

Senta, ma dove sta andando la scuola italiana?

“Secondo me nella direzione gusta, in una direzione di apertura, in cui entrano nella scuola le tecnologie e un nuovo modo di interpretare il mondo. E’ importante il fatto che entrino le ore di musica e di arte, il fatto che entrino nella scuola superiore parole chiave attorno a cui lavoreranno gli insegnanti: penso all’autoimprenditorialità, all’educazione finanziaria, alla musica per tutti, al potenziamento della matematica e dei laboratori. E’ pure fondamentale aumentare le ore di alternanza scuola e lavoro. Quanto all’immigrazione, ritengo bellissima la possibilità di collaborare con il Terzo settore, anche per entrare in contatto con le lingue di origine. In Inghilterra ad esempio se in una scuola ci sono alte percentuali di alunni, per esempio, cingalesi, si assume un docente cingalese, per favorire l’integrazione. Abbiamo pensato a quanti insegnanti stranieri con cittadinanza italiana potranno entrare nelle nostre scuole? Forse no, ma in Europa già succede”.

Dietro la sua scrivania c’è una foto con Falcone e Borsellino. Perché?

“Perché sono due esempi di comportamento. I bambini non sanno neppure chi fossero. Noi li abbiamo vissuti, le nuove generazioni no e la scuola li deve far conoscere. Tempo fa in Calabria uccisero un uomo, marito di un’insegnante. La docente, moglie della vittima, si ritrovò nella propria classe, come alunno, il figlio dell’assassino e cosi il preside le propose di spostare lei o il bambino. Lei si rifiutò. Eppure ogni giorno, tornando a casa, si ritrovava con un figlio senza padre per colpa del padre del suo alunno. Lo tenne con sé per cinque anni, per dargli la possibilità di scegliere da che parte stare: non poteva rassegnarsi all’idea di perdere anche lui classificandolo cattivo già in partenza. Occorrerebbe tirar fuori queste storie, questi esempi sono importanti per i ragazzi. Determinano in loro la decisione di essere bulli oppure no”.

Che idea ha lei della Riforma in atto?

“La riforma, se le scuole non la interpretano, è come se non ci fosse. L’autonomia non si è mai applicata. I docenti e i ds hanno in mano le chiavi del cambiamento e per questo dovrebbero essere pagati bene”.

Qual è la sua percezione dei docenti?

“Alcuni sono degli eroi, altri dovrebbero cambiare lavoro. Ma noi abbiamo pochissimo potere, la libertà di insegnamento è costituzionalmente protetta. Puoi controllare ma non puoi fare il docente al posto suo”.

Quando si parlò di chiamata diretta dei dirigenti lei come reagì?

“La cosa mi turbò perché pensai subito alle zone a più alto indice di corruzione e di clientelismo ma poi mi tranquillizzò arrivò la correzione normativa, con l’impedimento di assumere parenti”

Pericolo aggirabile, forse.

“Si ma non si può fare una riforma basandosi sulle patologie del sistema. E’ tutto nelle coscienze delle persone”.

Infine il potenziamento, la Fase C delle assunzioni. Che ne pensa?

“E’ un’idea positiva. Il potenziamento se fatto bene è una buona cosa. Se ho un bambino autistico e mi arriva un docente che non sa nulla di autismo ma c’è una graduatoria da rispettare, io devo rispondere al bisogno del bambino e non al bisogno di lavoro dell’adulto. Con il potenziamento posso chiedere un insegnante competente. Inoltre, visto che ci sono classi affollate, se si fanno dei gruppi la situazione migliora. La scuola è fatta per i ragazzi”.

WhatsApp
Telegram

Abilitazione docenti 60, 30 e 36 CFU. Decreti pubblicati, come si accede? Webinar informativo Eurosofia venerdì 26 aprile