ANDIS, per motivare insegnanti innalzare stipendi. Facilitare l’accesso all’insegnamento, perdiamo intelligenze

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Per Paolino Marotta, presidente Andis, la Buona Scuola è un deciso passo avanti verso l’autonomia, “una riforma epocale” che ha tenuto conto di gran parte delle idee emerse nel dibattito degli ultimi mesi.

Per Paolino Marotta, presidente Andis, la Buona Scuola è un deciso passo avanti verso l’autonomia, “una riforma epocale” che ha tenuto conto di gran parte delle idee emerse nel dibattito degli ultimi mesi.

Qualche nodo irrisolto, però, resta: nemmeno una parola sull’innalzamento del reddito dei docenti, anche se gli scatti di anzianità restano, né tanto meno un’idea strategica su come rendere l’accesso alla professione meno difficile di quanto sia adesso.

Alcuni giorni fa in un’intervista a Repubblica esprimeva perplessità sulla tempistica delle immissioni in ruolo dal 1° settembre 2015. Dopo l’approvazione del DDL da parte del Consiglio dei Ministri è ancora dello stesso parere?

“Il ddl dovrà avere una corsia preferenziale in Parlamento per rispettare il termine del 1° settembre e oggettivamente le due Camere potrebbero incontrare difficoltà legate al reperimento delle risorse”.

Hanno detto che ricorreranno alla decretazione d’urgenza.

“Sì, è una possibilità anche questa, anche se ho applaudito alla scelta di non scorporare le assunzioni dal resto sottoponendole così al confronto parlamentare insieme a tutti gli altri elementi del mosaico. Vede, l’aspetto assunzionale è vigilato da tanti, troppi interessi, quelli dei partiti, quelli dei sindacati, e il rischio sarebbe stato ridurre la portata della riforma unicamente a esso. Assumere 100, 150mila insegnanti non è necessariamente un bene, perché possa diventarlo è necessario sistemare anche gli altri tasselli”.

Questi tasselli secondo lei sono finiti nel posto giusto?

“Il disegno complessivo è davvero molto interessante, si tratta di una riforma epocale, ne sto studiando i vari passaggi e da quello che ho visto finora penso che le slide di Renzi non ne abbiano trasmesso il senso generale”.

Forse di proposito?

“Non faccio retropensieri. Certo è che il profilo del dirigente ne esce rafforzato, ma non alla stregua del timoniere solo al comando che hanno descritto i giornalisti. O meglio, se proprio si vuole utilizzare questa metafora, che era comparsa per la prima volta nella bozza del 3 settembre, si dica anche che il compito del timoniere è quello di individuare una direzione per la navigazione, per questo è indispensabile che sia riconosciuta appieno la sua capacità di leadership e che sia messo in condizione di operare al meglio”.

Per esempio scegliendosi il personale?

“Ecco un aspetto centrale, ma la scelta dei docenti non è tutto. La cosa più importante è nel POF triennale: le scuole dovranno essere in grado di programmare le loro attività e le loro spese – di organico, ma anche di strumentazione e di risorse economiche – come tutte le altre organizzazioni, nessuno darà più niente a quelle che non saranno in grado di farlo. Insomma, questo decreto è un deciso passo in avanti verso l’autonomia e vi si ritrovano tutte le idee espresse nel dibattito degli ultimi mesi”.

Pensa che i dirigenti italiani sapranno rispondere a questa sfida?

“L’autonomia va di pari passo con la responsabilità. Ed è indubbio che stiamo assistendo a una grande chiamata alle armi per tutti i dirigenti scolastici italiani: se questo ddl andrà in porto, i capi di istituto saranno esposti come non mai a critiche, a fallimenti. Il testo è chiaro: chi non ce la farà, sarà immediatamente sostituito dagli Usr. La nostra categoria presenta, esattamente come tutte le altre compagini professionali, luci e ombre, ma non possiamo, per paura che, appunto, qualcuno possa non essere all’altezza, fermare il cambiamento”.

Certo, un disegno come questo immagina il destino di una scuola, e quindi di centinaia di ragazzi e di famiglie, in mano a un unico uomo. Che fine fanno gli organi collegiali? E il lavoro dei docenti, almeno a livello strategico, sembra contare meno di quello del dirigente.

“Sono stato contento nel vedere che quando si parla di organi collegiali non si usa più la parola ‘approvazione’, ma un generico ‘accordo’. Quello che si delinea per i docenti, invece, è ancora troppo poco. Ho sempre sostenuto che per rimotivarli la prima cosa da fare sia l’innalzamento dei livelli minimi di retribuzione, ma di questo non c’è parola nel disegno di legge, come non si parla di rinnovo del contratto. Quello che non mi è piaciuto, invece, è la card per agevolarne i consumi culturali, come se ci fosse un legame deterministico con l’innalzamento delle loro competenze didattiche”.

Invece è un segno di attenzione che la categoria sembra avere gradito.

“Sì, ma pensiamo a quanto costerà: 500 euro moltiplicato per 800mila fa una cifra impressionante che si sarebbe potuta investire in altro modo, in una formazione e in un aggiornamento veri, non soltanto occasione e preda di opportunismi di associazioni, sindacati, case editrici”.

Ma come si fa ad avviare alla formazione 800mila persone?

“Questo è il vero nodo. È difficile, non c’è dubbio. Bisognerebbe innanzitutto coinvolgere seriamente le università e far tornare l’insegnamento a essere una professione attraente e non di così difficile approccio”.

Pensa che il percorso dovrebbe essere meno selettivo? Eppure un docente ben scelto in partenza sarà naturalmente portato all’autoformazione.

“Non parlo di rendere meno selettivo l’ingresso, solo che, non possiamo negarlo, se insegnare continuerà a essere così difficile, rischieremo davvero di perdere le intelligenze più brillanti, che si riverseranno facilmente su altri percorsi. Quando ero giovane io, le prime esperienze in cattedra potevano aversi anche prima della laurea, e questo ha contribuito a far restare nella scuola anche i migliori. Oggi, invece, una persona intraprendente e dotata sembra più portata a escludere a priori il mondo dell’insegnamento perché valuterà altre possibilità, prima tra tutte quella di andare all’estero”.  

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