Chi l’ha detto che le competenze prescindono dalle conoscenze? Lettera

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Egregio professor Alberto Girolamo, io non applaudo, anche se riconosco che c’è del buon senso nelle sue parole.

Sulla chiamata diretta sono abbastanza d’accordo. È sulle competenze e sulla tecnologia che ho delle perplessità; anche perché credo che in entrambi gli ambiti si sia fatta in Italia una scarsa formazione che ha ingenerato più di un equivoco.

Ma chi l’ha detto che le competenze prescindono dalle conoscenze? La didattica per competenze correttamente intesa è un approccio che tiene conto dei mutamenti della società del XXI secolo, ma non pretende di formare le nuove generazioni senza trasmettere conoscenze e senza offrire agli alunni coordinate per orientarsi nel mondo. Il presupposto è far acquisire conoscenze permanenti e incrementare le competenze degli alunni attraverso una didattica improntata sul fare.

Non so se davvero la scuola italiana (elitaria, classista) sia stata mai la migliore del mondo, ma di certo quella scuola là non può essere la scuola del terzo millennio.

Per molti versi (pur essendo diventata pubblica e di massa) la nostra è ancora una scuola del XIX secolo in cui insegnanti del XX secolo si affannano a formare le nuove generazioni del XXI secolo usando metodi che risalgono al 1700. Ma lei si affiderebbe a un dentista che la ospitasse in uno studio ottocentesco, con attrezzi antiquati e sanguisughe per tirarle il sangue dalle vene? Farebbe nascere suo figlio in casa tirato su col forcipe? Li laverebbe i panni con la cenere?

Ecco la scuola italiana del terzo millennio fa questo, opera in ambienti antiquati, con banchi che qualche volta hanno ancora il buco per il calamaio, sedioline traballanti, lavagne in ardesia e insegnanti che entrano in classe senza una formazione specifica e ripetono ad libitum i metodi e i sistemi di insegnamento e valutazione che hanno visto usare dai loro vecchi professori, i quali li avevano visti usare dai loro vecchi professori, i quali li avevano visti usare dai loro professori, i quali…

Poi ogni tanto qualcuno si sveglia o viene a sapere di cose che succedono in mondi freddi e lontani e comincia a parlare, così per sentito dire, di competenze, coding, compiti di realtà…

E allora è chiaro che, senza una formazione specifica, pare tutta una moda.

Fare in modo che gli alunni sappiano fare un’analisi testuale, per esempio, non può prescindere dal far acquisire loro la conoscenza dei generi letterari, delle figure retorica, della metrica, delle coordinate culturali che ti permettono di riconoscere l’appartenenza di un autore a una determinata corrente letteraria… Ci sono prerequisiti che sono imprescindibili (il problema è studiare come far acquisire questi prerequisiti; il che non vuol dire far memorizzare nozioni, ma far incrementare l’enciclopedia personale di ogni alunno, quella che ha disponibile per sempre, e non solo per affrontare un’interrogazione orale).
Peraltro, è una competenza (e non una conoscenza) anche la capacità di saper leggere le lancette di un orologio, come ci insegnavano alle gloriose scuole elementari del tempo che fu; il che dimostra che anche la vecchia scuola italiana non era tutta basata sulle conoscenze. Soprattutto il vecchio liceo classico (quello che formava la classe dirigente), non insegnava solo le declinazioni greche e latine e la vita e le opere di Cicerone e Demostene, ma soprattutto offriva agli alunni le competenze per leggere un testo in lingua latina o greca, ragionare sulla sua struttura e tradurlo in buon italiano. E anche la filosofia e la letteratura non era mai fatta di semplici nozioni da imparare a memoria ma di capacità di ragionare sui sistemi, operare confronti, esprimere giudizi critici…

Infine, non è affatto vero che “i nativi digitali sono così bravi con la tecnologia”…
Dall’avvento dei social network, il più delle volte, l’uso che fa un ragazzo dell’informatica si limita alla lettura e al copia e incolla di stati su Facebook oppure a fare clic in modo più o meno indiscriminato sul tastino del “like”. Inoltre, i cosiddetti nativi digitali sono spesso incapaci di fare una seria ricerca in internet o anche di inviare una semplice mail o formattare un testo in modo chiaro ed adeguato.
Usare le nuove tecnologie in ambito scolastico deve servire anche a insegnare a distinguere il grano dal loglio, a dare gli strumenti per discriminare e mettere in connessione dati ed eventi, a far capire agli alunni quanto possa essere inefficace e perfino ambiguo un linguaggio impoverito anche quando si comunica attraverso una chat, un SMS o altri servizi di messaggistica istantanea.

Lo stesso coding non si limita a trovare soluzioni secondo quanto predeterminato da un programma informatico, ma implica lo sviluppo di una creatività e di una capacità personale di risolvere problemi.
La tecnologia, se ben insegnata, non deve puntare a formare meri esecutori di programmi scritti da altri, ma creatori di algoritmi che necessitano, appunto, di creatività per trovare soluzioni molteplici e diverse ai problemi che vengono via via sottoposti.

Insomma, sono anch’io consapevole della crisi del nostro attuale sistema formativo. Ma credo che l’introduzione di una didattica per competenze, insieme con un uso critico e consapevole delle nuove tecnologie, serva proprio a limitare i danni. Altrimenti rischiamo di lasciare i ragazzi soli davanti a Facebook, nelle loro camere, e di fare della scuola una parallela che non si incontra con la realtà delle vite delle nuove generazioni.

Cordiali saluti,
Gaetano Vergara

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