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Innovazione didattica: gamification e realtà aumentata anche per insegnare latino e greco

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La nostra ricerca di pratiche didattiche che integrino con successo le nuove tecnologie ci ha portati a Cesena, nel Liceo Ginnasio “V. Monti”, dove la Prof.ssa Luciana Cino si serve della realtà aumentata anche nell’insegnamento del latino e del greco.

Professoressa Cino, si ha l’impressione che la didattica delle lingue classiche sia più restia a esplorare le potenzialità della tecnologia, ma il suo esempio va in direzione contraria; come è nato il suo interesse per la realtà aumentata?

“Può anche essere che i docenti di discipline classiche siano più restii di quelli di altre materie ad avvicinarsi alle nuove tecnologie, ma devo dire che sono abbastanza fortunata perché i miei colleghi di dipartimento nel liceo ‘Monti’ sono molti curiosi e desiderosi di sperimentare. Hanno seguito con curiosità ed interesse i vari interventi di formazione che, in qualità di AD, ho predisposto sulle pratiche didattiche innovative e l’integrazione delle ITC. D’altra parte, il fatto che alcuni siano contrari all’utilizzo delle tecnologie in classe a scopo didattico non ha creato problemi, anzi spazi di confronto: si tratta di un campo abbastanza nuovo, la dialettica non può che essere di aiuto affinché la scuola non rimanga neutrale rispetto a questo argomento ma maturi e sappia, inoltre, modificare nel tempo la sua posizione in merito.
Per quanto concerne la realtà aumentata, il mio interesse deriva dal fatto che già la usavo da fruitore da diverso tempo, in quanto i QRcode sono ovunque, nei pannelli delle mostre, sui segnali turistici dei nostri centri storici fino ai prodotti alimentari. Ho fatto un po’ di ricerche on line, ho sperimentato alcune applicazioni e le ho trovate estremamente utili nella mia pratica didattica”.

Ha scritto che lo stesso Dante nella “Divina Commedia” ci ha fornito un buon esempio di realtà aumentata…

“La ‘Commedia’ dantesca è una delle opere più belle che l’uomo abbia mai concepito, mi emoziona leggerla e mi rende fiera di essere italiana. La sua caratteristica principale risiede nel fatto che essa si offra a molteplici interpretazioni in virtù dei diversi piani di lettura che prevede, come è tipico della weltanschauung medioevale. I vari canti propongono ad un lettore comune una descrizione dei mondi ultraterreni, dei premi e delle punizioni che spettano dopo la morte nella “vera vita” che attende nell’al di là. Ma, un lettore attento, e viepiù uno studioso, possono rintracciare nello stesso testo molteplici significati stratificati che inducono a riflettere, ad esempio, sul percorso da compiere per passare dal male al bene o sul fatto che la vita terrena ci impedisca di realizzare a pieno la nostra personalità. Ho affermato che la ‘Divina Commedia’ è un capolavoro in realtà aumentata perché credo che le nuove tecnologie si propongano più o meno efficacemente di rispondere ai bisogni dell’uomo che in fondo sono sempre gli stessi: capire, attribuire significato, stupirsi.

Inoltre, credo che ogni opera d’arte sia una realtà aumentata in quanto in base alle conoscenze, alle esperienza del fruitore essa può essere compresa in modo più o meno ampio e offrirne un diverso grado di godimento’.

Quasi prevenendo una nostra critica, ha scritto che la realtà aumentata “non è un tipo di tecnologia che offra iperstimolazioni, non è invasiva, quanto piuttosto ispirata ad una pedagogia della lentezza”. Vuole spiegarci meglio cosa intende dire?

“Certo. I contenuti prodotti in realtà aumentata rimangono silenti finché non vengono attivati scientemente dal lettore che ne valuti la necessità. Un QRcode, un punto caldo di Thinglink o un’immagine di Aurasma, ad esempio, di per sé non aggiungono niente a ciò che stiamo osservando, rappresentano, per così dire, una promessa di contenuti ulteriori di approfondimento, di chiarificazione, di personalizzazione. È fondamentale che lo studente avverta l’esigenza di andare oltre, di scoprire cosa si cela dietro quel simbolo: la tecnologia non può e non deve sostituirsi al desiderio di apprendere. All’inizio della mia carriera ho lavorato nella scuola primaria ed ho imparato ad amare la lentezza, a “perdere tempo per guadagnarne”, come diceva Rousseau: parlare con i bambini, ascoltarli, ragionarci insieme, lasciare che certe curiosità maturassero in loro senza fornire risposte a domande non poste. È la “Pedagogia della lumaca” di Gianfranco Zavalloni, insegnante di scuola materna e poi dirigente scolastico illuminato il quale sosteneva che la scuola che si affanni nella corsa alla realizzazione di programmi e progetti, è assai distante dai bisogni essenziali degli studenti e che piuttosto il tempo perso è il modo migliore per favorirne i processi di apprendimento e stimolarne la crescita”.

In quali attività didattiche si rivela più proficuo l’impiego della tecnologia? Ha qualcosa a che fare con la cosiddetta ‘gamification’?

“Penso che la tecnologia sia a servizio della didattica, per cui la realtà aumentata è solo una delle tante possibilità per rendere il mio insegnamento più efficace e facilitare l’apprendimento degli studenti. Senz’altro essa gravita nell’orbita della gamification, una pratica didattica che fa leva sulle modalità legate al gioco, per coinvolgere gli studenti, motivarli, stimolarli ad una competizione positiva, accrescere la loro capacità di ideare strategie. Si tratta di un argomento complesso, che può essere facilmente banalizzato, ma che invece per me è fonte di grande interesse. Non mi scandalizza mettere insieme game e didattica, mi interessa guardare a quelle aree che attengono al mondo dell’informale e attirano l’attenzione dei nostri studenti, per capire come nella mia pratica didattica quotidiana posso attivare quegli stessi elementi di positività. Sicuramente quest’argomento incontra le resistenze di alcuni colleghi, soprattutto nella scuola media di secondo grado, perché generalmente riteniamo che via via che si diventi grandi lo studio smetta di essere un’attività ludica per diventare una cosa seria. Per me lo studio è un piacere, un gioco, è il mio hobby preferito: se riuscissi a trasferire questa suggestione ai miei studenti sarebbe il migliore insegnamento che posso offrire loro. È fondamentale, infatti, non solo che imparino ad imparare, ma che ne sentano il gusto, che siano motivati a farlo; che lo studio e la ricerca siano uno stile di vita, un’attività anche fine a se stessa, non legata necessariamente ad un bisogno emergenziale.

Desidero sottolineare, inoltre, che la gamification è legata all’idea che si possa apprendere in situazioni informali. Si tratta di un’esperienza vissuta nella quotidianità dalla maggior parte delle persone: le idee migliori, più creative per il lavoro sono concepite nel momento in cui la mente non è imbrigliata da schemi. Sarebbe bello se anche a scuola nelle pratiche didattiche e negli ambienti di apprendimento si cercasse di dare spazio all’informale”.

Lei integra quotidianamente le nuove tecnologie nel suo fare scuola o esse occupano uno spazio ben definito e occasionale?

“Le nuove tecnologie fanno parte della mia vita quotidiana, quindi anche del mio insegnamento. Talvolta le uso in modo strutturato, chiedendo agli studenti di lavorare ad un preciso oggetto digitale, una mappa, una presentazione, un e-book, un video, un podcast audio; ma per lo più esse mi supportano nel lavoro offrendo a me e agli studenti delle facilitazioni per il lavoro in classe e a casa. Penso, ad esempio, alla piattaforma e-learning, che mi permette di organizzare i contenuti della mia aula virtuale: materiali di approfondimento o recupero predisposti da me per attività di flipped classroom, learning objects creati dai miei studenti e condivisi con tutti. Quando lavoro in cooperative learning in modalità Jigsaw uso molto le app di Google che creano un ambiente di condivisione per me e per i miei studenti e consentono di lavorare anche a distanza in modo sincrono sugli stessi documenti per creare file di testo, presentazioni, questionari, ecc…Per il resto mi capita di proporre agli studenti di usare qualche applicazione perché ritengo che possa essere utile, ma puntualmente mi accorgo che loro fanno proprie ricerche, scelgono un’app di gusto personale che faccia il medesimo lavoro e sanno usarla molto meglio di quanto avrei saputo fare io. Questo non mi inquieta, penso che sia assolutamente normale. Il mio compito, rispetto al digitale, non è quello di dare istruzioni di base sull’uso degli strumenti o delle applicazioni, ma ragionare con gli studenti sul linguaggio della comunicazione e su un uso consapevole e critico dei media”.

In che maniera la realtà aumentata può stimolare i ragazzi anche allo studio della grammatica? Quale ruolo essa può ritagliarsi nella traduzione dal latino e dal greco?

“Le rispondo raccontandole un’esperienza fatta qualche anno fa con una classe del biennio: la creazione di una propria video-grammatica, molto semplice, ma funzionale. In ogni pagina c’era il titolo di un argomento di grammatica greca e latina svolto, ciascuno dei quali era collegato ad un video attivabile tramite Aurasma; in esso gli studenti stessi illustravano l’aspetto di morfologia o di sintassi. L’attività ha coinvolto tutti, anche gli studenti più fragili, ciascuno si è ritagliato un suo ruolo ed ha collaborato alla realizzazione di questo progetto. Al di là dell’uso della realtà aumentata, l’aspetto più significativo è stato francamente relativo al fatto che gli studenti stessi abbiano ideato il progetto, abbiano immaginato i destinatari e lo abbiano materialmente prodotto. La tecnologia ha rappresentato uno strumento, il mio obiettivo era effettuare un percorso di potenziamento e recupero, poi è capitato che gli studenti abbiano abbracciato la mia proposta arricchendola di altre finalità.

Altri esempi di attività didattiche compiute con la realtà aumentata, potete trovarli in questo articolo che ho scritto per Bricks http://bricks.maieutiche.economia.unitn.it/2017/03/12/realta-aumentata-nellaula-di-lettere/.

Quali App giudica più interessanti? Quali consiglierebbe ai nostri lettori?

“Consiglio volentieri delle applicazioni, ma non sono un’esperta in questo campo. Guardo anch’io le recensioni su internet, provo, valuto l’efficacia e l’impatto sugli studenti. Quelle che preferisco potete trovarle nelle pagine conclusive di questa presentazione (dalla slide 40 alla 48) https://www.slideshare.net/lucianacino/realt-aumentata-75558174, predisposta per un webinar per il corso ‘Formalmente, formare la mente liberamente’, organizzato dal CTS Centro Territoriale di Supporto (MIUR) di Genova in collaborazione con l’ITD”.

Tutti gli studenti si sentono coinvolti in queste attività o anche tra loro c’è chi preferisce una didattica più tradizionale?

“Sicuramente c’è chi preferisce la didattica tradizionale, magari la classica lezione frontale senza troppi fronzoli. Piace anche a me peraltro: sono fortunata, lavoro in un liceo classico, i miei studenti sono generalmente molto motivati. Avere la possibilità di condividere con gli alunni le mie ricerche, di farli entrare nel mio mondo, nelle mie suggestioni, è una bella occasione. Spesso li vedo ascoltare rapiti perché abbiamo in comune una passione e questo è emozionante. C’è da dire però che una lezione frontale è per tutti la soluzione più consueta, in qualche modo più comoda: io ottimizzo i tempi e torno a casa soddisfatta; loro possono permettersi di ascoltare senza porsi domande, in modo passivo. Ma, altro è aver ascoltato, altro aver imparato. Bisogna dedicare delle ore in classe a fare insieme, a riflettere su ciò che si è appreso se si vuole produrre una conoscenza autentica, se si vuole aiutare i nostri studenti ad apprendere alcune strategie che li renderanno capaci di orientarsi in un mondo che cambia velocemente, a sapersi mettere in discussione. Oggi gli studenti non sanno cos’è il dubbio, non conoscono l’attesa della ricerca, la sospensione del giudizio, la pazienza di lavorare a testa bassa per un risultato che è lungi dall’arrivare. Non credo affatto che questa sia una loro responsabilità e ritengo che almeno dobbiamo loro insegnare come cavarsela in queste situazioni”.

Quale genere di pregiudizi contro la tecnologia riscontra più di frequente tra i suoi colleghi?

“Nel risponderle prendo in considerazione quegli elementi critici che rappresentano motivi di riflessione anche per me. Sicuramente è un problema la precocità dell’utilizzo di strumenti digitali: trovo abbastanza inquietante che oggetti potentissimi come smartphone e tablet siano posti in mano a bambini sempre più piccoli, senza alcuna consapevolezza da parte delle famiglie dei rischi ad essi connessi. Il problema però a questo punto è cosa possa e debba fare la scuola. Io ritengo che sia suo dovere fornire una chiave di interpretazione di questi fenomeni, promuovendo corsi di approfondimento con esperti per le famiglie e di cittadinanza digitale per gli studenti. Non credo che le tecnologie digitali vadano demonizzate, né che se ne debba vietare l’uso a scuola. In relazione alla fascia di età della propria utenza e del rapporto con le nuove tecnologie che gli alunni hanno, la scuola tarerà il suo intervento, valutando se usarle e come. Vanno, inoltre, tenuti in considerazione soprattutto nella scuola dell’obbligo, le problematiche di emarginazione sociale legate al digital divide: le ITC non devono diventare occasione di disaggregazione, né favorire dinamiche di esclusione. Infine, penso che occorra guardare con molta attenzione ai rischi della cyber cultura, non abbandonando gli studenti da soli nel web, ma fornendo loro criteri e parametri per verificare l’attendibilità dei siti e in generale delle notizie”.

A quale idea di pedagogia si sente legata?

“Sicuramente mi sento vicina al Costruttivismo, che ho appreso ai tempi dell’Università, al Mastery learning di Bloom, di grande attualità grazie alla diffusione della Flipped classroom, al problematicismo di Bertin, che fa parte del mio DNA di docente.

In questo periodo, in particolare, sto facendo ricerche sugli ambienti di apprendimento e gli approcci pedagogici ad essi sono sottesi: l’ambiente è un terzo educatore, come diceva Loris Malaguzzi. Ogni volta che entriamo in classe il setting d’aula agisce sui nostri studenti mediando un certo tipo di convinzioni, ancor prima che noi apriamo bocca”.

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