App per la didattica? Pichierri: partire dalle esigenze degli studenti e non delle case editrici

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Come si creano le App per la didattica? Natalia Pichierri, ingegnere e docente di informatica nella scuola secondaria, è convinta che innanzitutto si debba “partire dai reali bisogni degli studenti, piuttosto che dalle esigenze di sopravvivenza delle case editrici, e creare della App per la didattica e non una didattica per le App”, obiettivo che i grandi colossi hanno ancora raggiunto.

Professoressa Pichierri, nemmeno Apple le sembra all’avanguardia da questo punto di vista?

“Secondo il sito ufficiale dell’Apple, a marzo 2017, ci sono oltre 170.000 App per l’istruzione, tutte dedicate al mondo della scuola. Questo numero totale di titoli disponibili, tuttavia, fa riferimento al “contesto mondo” e non tutti sono disponibili in tutti i Paesi. Inoltre, la stessa Apple presenta le notevoli potenzialità dei suoi prodotti per fare lezioni innovative, e mette in risalto le grandi qualità hardware: microfono, video e telecamera di qualità, possibilità di aggiungere effetti sonori, di creare un proprio materiale didattico, di visitare, persino, “le piramidi di Giza, ruotando l’iPad per ammirarle a 360 gradi” nella stessa classe e senza spostarsi. Il colosso di Cupertino continua pubblicizzando le sue App: “Pages” può essere usata affinché “la classe diventi la redazione di un giornale”,  “iMovie” per trasformare “le tesine dei ragazzi in documentari”, “GarageBand”  per mettere “in musica le poesie”, e così via. Ci sono tantissime possibilità e potenzialità eppure ogni qualvolta cerco qualcosa di molto semplice da usare in classe, non trovo mai nulla. La ricerca, soprattutto, con parole chiave in lingua italiana su App Store offre scarsi risultati e spesso poco adatti, secondo me, alla didattica. Non tutti i ragazzi, inoltre, hanno l’ultimo modello dell’iPhone o il Mac a casa, o hanno le capacità di musicare le loro poesie.

Anche se il problema dell’inglese può essere superato, proviamo a fare un salto alla scoperta delle App per l’istruzione all’interno dell’App Store. Ci sono tantissimi titoli, tanti dizionari, tantissimi libri di letteratura con costi che vanno da pochi centesimi di euro, fino a qualche centinaia. Poi c’è una sezione dedicata a “ordini e gradi di scuola”. Andando più a fondo, e prendendo in considerazione la scuola secondaria di II grado, ad esempio, alla voce informatica (la materia che insegno attualmente) non troviamo nessun risultato. Sotto la voce App per la scuola ci sono dei semplici e-book, quasi fossero una mera traduzione digitale dei tradizionali libri cartacei. Ma cosa intende la stessa Apple per App per la didattica?”

È una scommessa che potrebbero provare a vincere anche le scuole, le aziende e le Università italiane? In che modo?

“In Italia l’attenzione verso l’innovazione tecnologica è sempre più diffusa anche nel mondo della scuola. Le leggi ci sono, e anche le buone intenzioni. Il D.L. 179/2012 rappresenta, ad esempio, uno tra i primi passi verso il digitale e mette in evidenza le caratteristiche del libro elettronico che non deve presentare una sovrapposizione di argomenti e contenuti rispetto al cartaceo e tratta i “Contenuti Digitali Integrativi”. Il successivo D.M. 781/2013 prende in considerazione i “Contenuti di Apprendimento Integrativi”, lo storytelling multimediale, l’infografica che associa al testo diagrammi e immagini, la visualizzazione in forma animata ed interattiva di dati e informazioni e, infine, i preziosissimi “learning object”, cioè contenuti esaurienti su un certo argomento e caratterizzati da interattività e multimedialità,  autoconsistenti, riutilizzabili e riadattabili.
La scommessa che si potrebbe fare è partire dai reali bisogni degli studenti, piuttosto che dalle esigenze di sopravvivenza delle case editrici, e creare della App per la didattica e non una didattica per le App. Bisogna guardare ad un prodotto con l’occhio del cliente, coccolarlo, chiedergli cosa desidera e cosa lo rende felice. Il prodotto, in questo caso, non si vede, è più un servizio, un fine, una missione: si chiama “cultura”. I ragazzi passano il loro tempo non con i libri, ne’ con gli e-book, ma con il loro cellulare e i giochi. Insegniamo loro come utilizzarlo correttamente”.

Ci racconti quello che sta facendo all’Università Roma Tre.

“Sono proprio i ragazzi che vogliono imparare a creare qualcosa con le proprie mani e dagli studenti di ingegneria della facoltà di Roma Tre è partita la richiesta di un primo corso pilota di programmazione mobile. Dura circa 20 ore il corso “Developing iOS 10 APP with Swift 3” che sto tenendo in questo periodo come docente e in cui cerco di spiegare in pratica ciò che insegno in azienda quando faccio formazione del personale. Ho cercato di portare nelle aule scolastiche le esigenze aziendali in termini di sviluppo di app per dispositivi Apple. Non solo ho ripreso gli stessi contenuti, ma lo stesso metodo di insegnamento. La lezione frontale si alterna spesso e volentieri con il “learning on the job” e con la didattica laboratoriale. Le lezioni sono svolte in una semplice aula con un proiettore non di ultima generazione. Non c’è un laboratorio dedicato, ma una missione: ogni ragazzo con il suo mac o, comunque, con un pc con macchina virtuale ed una connessione ad Internet deve cercare di fare qualcosa in prima persona rendendosi protagonista del proprio apprendimento.
Partendo dalle fondamenta del linguaggio Swift 3.0, ho mostrato come creare animazioni colorate su “disegni fatti a mano da artisti contemporanei e fotografati”, per poi passare a spiegare la struttura del “Newton Simulator”, che ho utilizzato in altre sedi per spiegare le leggi di conservazione della quantità di moto e dell’energia. Si tratta di un semplice programma scritto con il playground di Xcode in Swift 3.0 che i ragazzi dopo il corso sarebbero stati in grado di riprodurre e scaricare sul proprio cellulare. Sono così arrivata, nelle due ultime lezioni, a far sviluppare delle semplici app da utilizzare in classe in un ipotetico corso di informatica o sistemi delle superiori. Per queste ultime ore ho cercato di sperimentare la “flipped classroom” grazie all’attenzione e gestione continua di un gruppo facebook diventato una piccola community e in cui di volta in volta propongo degli spunti di riflessione sulle lezioni future e i video (girati semplicemente premendo il play della video camera di un pc fisso davanti alla cattedra) delle lezioni svolte in aula per l’e-learning. Il corso ha attirato l’attenzione della LUISS Enlabs che ha proposto con Codemotion dei futuri meet-up e dell’Ordine degli Ingegneri di Roma”.

Ci fa qualche esempio di App pensata da lei per agevolare gli studenti nello studio della matematica o del greco antico?

“Preferisco lasciare al lettore la ricerca e magari anche qualche proposta”.

Un docente ‘tradizionale’ può diventare anche lui un inventore di App?

“Lo sviluppo di App è diverso dall’idea. Qualsiasi persona può avere una buona o brillante idea ma, come dice Schilling nel suo libro sulla “Gestione dell’Innovazione”, su 3000 nuove idee allo stato embrionale sola una si trasformerà in un prodotto di successo. Ovviamente un docente può e dovrebbe avere le competenze informatiche necessarie per creare dei piccoli supporti informatici utili alla sua didattica. Oggi esistono tantissimi tool molto immediati che lo consentono. Lo stesso “App Inventor” offre un ambiente molto user-friendly per lo sviluppo di app”.

In quale ordine di scuola non si hanno da temere gli effetti negativi di un insegnamento che fa largo uso di App? E’ sicuramente al corrente delle riserve espresse da varie correnti pedagogiche a questo riguardo…

“Ricordo l’articolo di un po’ di tempo fa in cui si leggeva che il fondatore della Microsoft, Bill Gates, dichiarava che sua figlia di 10 anni poteva passare solo 45 minuti al giorno davanti allo schermo, a parte il tempo necessario per svolgere i compiti. Un’aggiunta di solo un quarto d’ora le era concessa nel fine settimana, quando la giovane poteva trascorrere fino a un’ora giocando on-line, o, comunque, davanti allo schermo. Lo stesso Steve Jobs, amministratore delegato e fondatore di Apple, dopo il lancio del primo iPad, in un’intervista al New York Times del 2010, dichiara: “Dobbiamo limitare l’uso della tecnologia dentro casa da parte dei nostri bambini”. Nell’ App Store di Apple, tuttavia, ci sono diverse sezioni dedicate ad App per “Imparare ad ogni livello” di scuola.

A prescindere dalle giustificazioni e classificazioni pedagogiche (sono un ingegnere non una pedagogista), ritengo che la tecnologia vada sempre usata con razionalità e moderazione. Sono emerse numerose patologie legate ad un suo abuso. L’eccessiva persistenza di giovani e giovanissimi davanti a pc, smartphone e tablet può avere ripercussioni sullo sviluppo e sul sano funzionamento del corpo, con conseguenze negative anche su vista, postura, obesità, e sulla sfera cognitiva e comportamentale.

Ben vengano, a mio avviso, tutte le iniziative che da un lato promuovano l’utilizzo di prodotti Hi-Tech ma che nello stesso tempo accendano dei campanelli di allarme sugli effetti negativi annessi. Cyberbullismo, isolamento sociale, rischio di vivere in una dimensione virtuale più che reale, incapacità di gestire l’attesa e la noia, dipendenza, diminuzione della capacità attentiva e del problem-solving sono tra i peggiori effetti di un uso non appropriato”.

Non crede che se in futuro gli insegnanti saranno formati per addestrare gli studenti all’uso di App vedranno sminuito il loro ruolo?

“Il ruolo del docente è dinamico nel tempo. Il ruolo spesso dipende dallo stato economico di un soggetto, dalla sua sicurezza, dal potere contrattuale che ha, dall’autorealizzazione, e dall’ambiente di lavoro. Un docente formato per insegnare ad usare un’App molto probabilmente sarà più ascoltato dai suoi studenti perché parla la loro lingua, usa i loro mezzi, e sarà considerato un insegnante moderno. Ma non basta essere formati per poter lavorare in una scuola smart: ci vogliono le strutture, computer veloci, internet, regolamenti diversi e classi diverse. Se il computer che utilizzo a scuola è 10 volte più lento del cellulare di uno studente, la sua motivazione a seguire la lezione è zero.  Un insegnante può essere preparato su tutto, ma se non ci sono le giuste condizioni strutturali l’ambiente ne risente e anche la stessa motivazione del docente che, invece, di insegnare qualcosa, sarà costretto a gestire “le classi pollaio” che gli vengono affidate. Quindi, sono le app che tolgono il ruolo?”.

Lei è per una didattica, come si suol dire, total tablet?

“Se potessi insegnare comodamente a casa risparmierei molto tempo, produrrei meno CO2, eviterei il traffico della città e potrei dedicarmi alla ricerca su ciò che insegno. Ma non è possibile sostituire l’uomo con una macchina né con un’app, soprattutto, se l’ambito di intervento riguarda l’educazione e la formazione delle persone. La scuola e l’istruzione a qualsiasi livello richiedono, infatti, anche altre qualità che non sono meramente nozionistiche quali empatia, capacità relazionali, motivazionali, psico-pedagogiche proprie del contatto face-to-face. La crescita non può essere solo contenutistica e la stessa capacità di ragionamento dipende molto da quanto a livello umano il docente riesce a trasmettere. Una persona motivata, inoltre, sarà portata a studiare di più, a rapportarsi con l’altro in modo corretto, a capire l’importanza di ciò che sta facendo, ad avere una particolare sensibilità davanti alle cose, a risolvere i problemi e a guardare con occhio critico quanto la circonda. Credo che la tecnologia possa supportare l’insegnamento, se usata correttamente, ma non sostituirà mai l’uomo”.

Ho letto che il suo desiderio è “creare una équipe di sviluppatori senza frontiere che possano studiare, sviluppare e fare ricerca senza confini geografici, ma grazie ad un pc e ad una connessione Internet”. Sogna una Silicon Valley nel Bel Paese? Ci sono i presupposti?

“Basta una connessione Internet, un cellulare, un buon computer, la conoscenza dell’inglese e poi tanta, tanta voglia di fare e motivazione nel raggiungere l’obiettivo. L’Italia è solo un territorio, è il posto dove si vive, dove c’è la casa e la famiglia. Il resto è già possibile”.

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